Newsletter Labour – Semplificare il diritto del lavoro, quando? Bozza DL Anti-delocalizzazioni: Stop ai licenziamenti collettivi senza l’approvazione del MISE.
Paola Tradati e Nicola Bonante – 23 Agosto 2021
È stata pubblicata nei giorni scorsi su alcuni organi di stampa la prima bozza del c.d. “DL Anti-delocalizzazioni”, provvedimento al quale il Ministero del Lavoro e il Ministero dello Sviluppo Economico stanno lavorando da alcune settimane e che dovrebbe passare al vaglio del Consiglio dei Ministri alla ripresa dei lavori dopo la pausa estiva.
Se la bozza del decreto circolata in questi giorni dovesse essere confermata e approvata dal Consiglio dei Ministri, l’impatto per le società che dovessero decidere di procedere alla chiusura di un proprio sito produttivo sarebbe particolarmente significativo.
Il decreto introdurrebbe, per le società con almeno 250 dipendenti, l’obbligo di presentare un «piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura del sito produttivo», prima di poter procedere con l’avvio di una procedura di licenziamento collettivo. Inoltre, nel caso in cui il “piano” non sia approvato dal Ministero dello Sviluppo Economico e l’azienda decida di procedere comunque con il licenziamento dei lavoratori addetti al sito produttivo, il c.d. “ticket di licenziamento” sarà incrementato di 10 volte (arrivando, quindi, per le società rientranti nel campo di applicazione della CIGS che non raggiungano un accordo con le organizzazioni sindacali per la gestione degli esuberi a circa Euro 90.000 per singolo dipendente licenziato).
La bozza del decreto legge prevede, infatti, che «le imprese che al 1° gennaio dell’anno in corso occupano almeno 250 dipendenti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e che intendono procedere alla chiusura di un sito produttivo situato nel territorio nazionale con cessazione definitiva dell’attività per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza», prima di poter avviare una procedura di licenziamento collettivo, devono obbligatoriamente inviare al Ministero del Lavoro, al Ministero dello Sviluppo Economico, all’ANPAL, alla regione in cui è situato il sito produttivo in chiusura, alle rappresentanze sindacali aziendali e alle rispettive associazioni di categoria (o in mancanza alle associazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale), una «comunicazione preventiva» in cui sono illustrate «le ragioni economiche, finanziarie, tecniche o organizzative del progetto di chiusura, il numero e i profili professionali del personale occupato e il termine entro cui è prevista la chiusura».
Entro i 90 giorni successivi all’invio della «comunicazione preventiva» l’impresa deve, inoltre, presentare al Ministero per lo Sviluppo Economico un «piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura del sito produttivo», che deve indicare:
a) «le azioni programmate per la salvaguardia dei livelli occupazionali e gli interventi per la gestione non traumatica dei possibili esuberi, quali la ricollocazione presso altra impresa, le misure di politica attiva del lavoro, quali servizi di orientamento, assistenza alla ricollocazione, formazione e riqualificazione professionale, finalizzata alla rioccupazione o all’autoimpiego»;
b) «le prospettive di cessione dell’azienda o dei compendi aziendali con finalità di continuazione dell’attività, anche mediante cessione dell’azienda, o di suoi rami, ai lavoratori o a cooperative da essi costituite»;
c) «gli eventuali progetti di riconversione del sito produttivo, anche per finalità socio-culturali a favore del territorio interessato»;
d) «i tempi, le fasi e le modalità di attuazione delle azioni previste».
Entro 30 giorni dalla presentazione del “piano”, il Ministero per lo Sviluppo Economico convoca l’azienda «per l’esame e la discussione del piano, con la partecipazione dell’ANPAL, della regione e delle organizzazioni sindacali». Entro il medesimo termine di 30 giorni, il Ministero deve concludere l’esame del “piano”, salvo eventuale proroga del termine di ulteriori 30 giorni con l’accordo di tutte le parti coinvolte nel tavolo di discussione.
Decorso tale termine, durante il quale non può essere avviata alcuna procedura di licenziamento collettivo, il Ministero per lo Sviluppo Economico, «sentite le organizzazioni sindacali e l’Anpal, approva il piano qualora dall’esame complessivo delle azioni in esso contenute risultino sufficienti garanzie di salvaguardia dei livelli occupazionali o di rapida cessione dei compendi aziendali».
Nel caso in cui il “piano” non sia approvato dal Ministero – o l’impresa abbia omesso di presentare il “piano” entro il termine di 90 giorni di cui sopra – l’impresa che avvii una procedura di licenziamento collettivo «come conseguenza della chiusura del sito produttivo» sarà tenuta a pagare il «contributo di cui all’articolo 2, comma 31, della legge 28 giugno 2012, n. 92 [il c.d. “ticket di licenziamento» – ndr] in misura incrementata di dieci volte» e «all’impresa è altresì precluso l’accesso a contributi, finanziamenti o sovvenzioni pubbliche comunque denominate per un periodo di cinque anni dalla data di scadenza del termine per la presentazione del piano […], o dalla sua mancata approvazione».
La medesima sanzione della decuplicazione del “ticket di licenziamento” è prevista per l’ipotesi in cui il “piano” sia approvato dal Ministero, ma l’azienda non rispetti gli impegni assunti con il piano.
Vedremo nelle prossime settimane se l’impostazione del Decreto Legge sarà confermata dal Consiglio dei Ministri o se, invece, come auspicabile, verrà completamente rivista, evitando di introdurre ulteriori limitazioni alla iniziativa economica privata – costituzionalmente tutelata – che, invece di contrastare il fenomeno delle c.d. delocalizzazioni, avranno come unico effetto quello di rendere sempre meno appealing il nostro Paese verso investimenti anche – e soprattutto – stranieri.